Salve, mi chiamo Angelo Andrea Vegliante e il 25 dicembre 2018 sono stato volontario al Pranzo di Natale della Comunità di Sant’Egidio di Ostia. Attività che molti comunemente confondono con l’appellativo “Mensa dei poveri“.
In realtà, si tratta di una dimensione ancora più ampia. Con il benestare della Sezione locale, ho deciso di creare un mini-diario della mia esperienza, non solo per raccontare la realtà del Pranzo di Natale, quanto per provare a sensibilizzare l’opinione pubblica su un tema troppe volte abusato: il sociale.
Vi avverto: il mio sarà un racconto molto lungo, con buona pace della SEO. Questo perché, in mezzo, troverete considerazioni, brevi dichiarazioni e qualche spaccato di vita abbastanza nevralgico per comprendere appieno il mondo della solidarietà.
Fine novembre: l’idea
Il tutto è iniziato in maniera particolare. Era già da un anno che volevo fare qualche attività solidale durante le Feste, ma solo quest’anno ho avuto la convinzione necessaria per prenderne parte. Perciò, possiamo iniziare: il nostro racconto alla fine di novembre 2018.
Sono in macchina con un mio amico – a cui non ho chiesto se volesse il suo nome e cognome per esteso in questo racconto, quindi mi sono preso la licenza poetica di attribuirgli il nome di Diesel (in realtà, è il suo soprannome, ma vorrei mostrarmi a voi come un grande creativo).
Siamo di ritorno dalla città di Pisa (dove abbiamo mangiato solo sushi, pensate che turisti un po’ sbandati che siamo) e stiamo affrontando l’argomento Natale.
“Ehi, ma se facessimo qualcosa di veramente buono a Natale? Che so, aiutare i senza tetto, il Pranzo di Natale, una cosa di questo tipo”, fu la proposta di Diesel. Lo so, magari uno si immagina qualche discorso dall’acume singolare oppure epifanie a go go. Ma, in realtà, è andata semplicemente così.
Una domanda, una risposta: “Sì”. In fin dei conti, non c’è molto da pensarci. O lo fai, o non lo fai. Attenzione: non farlo non significa necessariamente essere delle brutte persone, qui nessuno giudica nessuno. L’obiettivo di questo racconto è un altro: avvicinare le persone al sociale, poi ognuno sceglie la battaglia alla quale più crede.
Inizio dicembre: la chiamata
L’infausto compito di cercare un’associazione che mettesse su il Pranzo di Natale fu consegnato a me. Dico ‘infausto’ perché io, con le chiamate telefoniche, ci faccio un po’ a cazzotti. Non tanto nel parlare – essendo uno speaker, ormai, mi sono ridotto a far finta di essere in una trasmissione radiofonica e ad annunciare canzoni alla fine di ogni chiamata -, quanto nell’attesa della risposta.
In generale, odio le attese, e quindi va sempre a finire che, nel caso di un’attesa infinita attaccato alla cornetta, imprechi prima con me stesso e poi con l’operatore, che porello non c’entra mai nulla, ma è il capro-espiatorio più vicino che ognuno di noi ha per sfogare la propria rabbia.
Che poi, a ben pensarci, lo stesso operatore potrebbe incamerare così tanta rabbia da sfogare sugli altri, e quegli stessi altri potrebbero sfogare la loro rabbia su di noi. Insomma, un moto perpetuo.
Fortunatamente, nulla di tutto ciò è accaduto. Quindi etichettate come “Inutile” la parte precedente. Prima di tutto, sono andato su internet per cercare un elenco di associazioni. A dirla tutta, non è stata una ricerca molto complessa, in quanto ho trovato numerose realtà che chiedevano aiuto per i loro eventi natalizi. Alla fine, ho scelto la Comunità di Sant’Egidio.
Oh, lo dico come premessa: non ho fatto questa scelta per motivi di blasone, perché sono favorevole al cristianesimo, perché conosco qualcuno lì, perché volevo farmi figo sui social, perché ero in cerca di redenzione morale o via discorrendo. Semplicemente, perché ho pensato che mettermi in gioco in una realtà diversa dalla mia esperienza personale (sono ateo, per diversi anni sono stato volontario per persone con disabilità e per un breve periodo anche volontario europeo) fosse la scelta più idonea.
Ho chiamato il numero centrale della Comunità, che ha inserito me e Diesel nella lista della sede più vicina a noi, quella di Ostia (Roma). Successivamente, abbiamo ricevuto la chiamata di Lucia, la nostra referente per il Pranzo di Natale, che ci ha invitato a partecipare a una riunione alla Chiesa di Sant’Egidio di Ostia per comprendere appieno quale fosse l’impegno richiesto e in che cosa ci stavamo addentrando.
Giovedì 13 dicembre: la riunione
“Vabbé, ma che te serve ‘a riunione? Devi dà un piatto a du’ poracci”, potrebbe commentare l’utente medio che, per facilità, lo chiameremo Dick (nome di fantasia scelto a caso).
Eh no, mio caro Dick, la consapevolezza del luogo dove si va serve sempre. Un po’ come Roma: non ti ci puoi trasferire pensando semplicemente “Perché è bella”, poiché, appena ti rendi minimamente conto di come funziona la metropolitana, la prima cosa che faresti è prendere un biglietto solo andata per Arequipa, ridente cittadina del Perù. Sempre se riesci ad arrivare all’aeroporto più vicino.
Così, giovedì 13 dicembre, Diesel e io siamo andati alla riunione di SantEgidio, presso l’omonima chiesa di Ostia. Per chi è del posto: vicino al Centro Anziani, dietro la Biblioteca Elsa Morante. Per chi non lo è: davanti al mare. Lo so, abbiamo un lungomare veramente lungo, però forse l’indizio della biblioteca potrà aiutarvi.
Si tratta di una Chiesa precedentemente abbandonata. Da qualche anno – per dettagli che non sono riuscito a segnare, anche perché finora non era uscito il dettaglio del possibile reportage, e quindi ero lì principalmente per dovere morale – è passata alla Comunità di Sant’Egidio, divenendo così un vero e proprio polo nevralgico per tutti i senzatetto italiani e stranieri della zona.
Qui abbiamo conosciuto due persone appartenenti alla Comunità: Stefano e Corrado, in ordine di apparizione. Il primo, per stessa ammissione di Diesel, “ti accoglie con un sorriso che ti spiazza”. Il che è vero, perché Stefano ha sempre un largo sorriso, anche quando gli parli. Che Dick potrebbe dire “Ehi, ma che cazzo te ridi?”. E invece, mio caro testa di Dick, sarà semplicemente perché si tratta di una persona gentile e felice. Vai a vedè che ‘mo sorride è ‘na colpa.
Dopo che siamo stati accolti, Stefano ci ha condotto in una stanza limitrofa allo spazio dedicato alla messa, dove c’erano già una ventina di persone ad attenderci. Qui Corrado ha spiegato a grandi linee la storia della Comunità (arrivata al suo cinquantesimo anniversario), le sue mission e come mai, negli anni Ottanta, fosse nato il movimento del Pranzo di Natale.
Le chiavi
Cosa ancora più importante, vennero elencati i precetti del nostro futuro giorno di volontariato. Penso che tutto può essere riassunto con un singolo concetto: “Il nome“.
Perché sì, al di là delle questioni puramente tecniche, come la divisione dei ruoli (chi fa il cameriere, chi divide il cibo, chi prepara i doni natalizi, chi amministra il tutto), c’è la questione della dignità delle persone che verranno ai nostri tavoli.
Come ha detto Corrado a tutti noi, i commensali del Pranzo di Natale saranno italiani e stranieri che, per un motivo o per un altro, sono stati dimenticati, e ciò che gli resta è solo un nome: quel nome che gli stessi invitati ritroveranno sui regali di Natale gentilmente acquistati da cittadini unicamente per loro.
Che se uno ci pensa, è una verità sacrosanta. Come per Dick e Diesel, tutti noi abbiamo un nome, non siamo solo meri numeri IBAN. Dietro ogni nome c’è una storia, una donna, un uomo, una persona. Ed è, forse, una delle rare cose che ci rende umani. Il regalo con scritto sopra il nome dell’invitato, dunque, fa comprendere ancor di più l’importanza della dignità umana, per quegli Ultimi che tanto vengono inneggiati dalla politica e dagli elettori affini a questa confusione intellettuale, ma per i quali non si perde tempo neanche per conoscere i nomi.
Oltre a ciò, mi ha colpito un’altra faccenda, che mi è venuta in mente nel momento in cui il fattore Dick si è impossessato delle mie facoltà mentali: “Ma questi sono cristiani, ma che te pare che aiutano persone di altre religioni?”. Un autogol pazzesco, al quale lo stesso Corrado mi ha saputo rispondere, sottolineando che qui non si aiutano le persone in nome della religione, ma per umanità, che tu sia cristiano, cattolico, mussulmano, buddista e via discorrendo. Di fatto, nel menù del Pranzo di Natale, si fa molta attenzione anche al tipo di carne che viene proposto, perché potrebbe urtare la sensibilità di qualcuno.
Questione morale
In questo contesto, è emersa la mia richiesta di raccontare questa esperienza, accolta dalla Comunità. Un mio desiderio, però, che ha dato subito spazio a pensieri particolari – e purtroppo molto attuali. In realtà, una parola è rimbalzata nel mio cervello come fosse il salvaschermo del sempreverde Windows 95: “Sciacallo“.
Ebbene sì, perché oggi come oggi la categoria di chi fa parte del mondo della comunicazione viene censita da Dick e compagni come “puttana e pennivendola“. Constatai questo quando, qualche tempo fa, per un mio videoreportage, un tizio mi chiese se fossi una puttana o un pennivendolo. Sostanzialmente, ero un nemico per lui.
E non ho interiorizzato questo precetto in maniera limpida, perché il giornalismo è un’arma molto importante per l’opinione pubblica al fine di consapevolizzare più a fondo la realtà che ci circonda. Anche per questo motivo mi sono avvicinato al campo di lavoro, per allargare lo spettro visivo personale e comunitario.
Ed è lo stesso motivo che mi ha spinto ad avanzare tale richiesta. Quindi, se qualcuno vuole etichettare questa mia esperienza come “Sciacallagine“, liberi di farlo. Anzi, levate anche le tende da qui per quanto mi riguarda.
Il mio interesse è solo quello di raccontare una storia. Ora sono io a farlo, Angelo Andrea Vegliante, ma c’è chi, come me, lo fa per tante altre questioni. E non lo facciamo per aumentare il blasone del nostro nome, ma perché crediamo nel nostro lavoro. Che vi piaccia o meno.
Data non decifrata: le case di riposo
Inevitabilmente, tutto questo racconto chiama in causa un luogo non ben giudicabile. Nel senso che le case di riposo sono ancora oggi al centro di molte critiche e supposizioni che, per un motivo o per un altro, non hanno riscontri certi.
Premessa: in questo contesto, non si vogliono denigrare le case di riposo. La loro istituzione è utile allo scopo, sicuramente molti ambienti assicurano un contesto dignitoso per gli anziani che vi dimorano. Come accade per altri contesti, però, si può sempre fare qualche passo in avanti, e dunque è obbligatorio farsi due domande. A causa, però, dell’estrema delicatezza del tema, non potrò riportare nomi e date di alcuni eventi che sto per menzionare.
Grazie ad alcuni cittadini, sono venuto a contatto con storie di persone risiedenti in alcune case di cura italiane. Una prima caratteristica che salta all’occhio è la presenza di individui quasi centenari dimenticati dai propri familiari. Non tutti, sia chiaro, alcune persone ricevono visite continue da parte di figli e nipoti e via discorrendo. Non dobbiamo fare di tutta l’erba un fascio, non conosciamo a fondo le storie delle persone per poter dare giudizi affrettati.
Il contenuto, però, è lo stesso per tutti: l’oblio, indifferentemente da chi tu sia, anche se sei stata una persona cattiva. Sì, perché, come mi verrà sottolineato in seguito, “non è detto che tu sia per forza di cose una persona buona semplicemente perché sei povero o anziano.
Bisogna eliminare questo tabù che crea semplice pietà e lede la dignità delle persone, declassando i buoni a meri casi umani per cui provare “commiserazione”. Che, a ben rifletterci, è al pari di una considerazione confidatami tanti anni fa da un tizio: “Io sono stronzo, non è perché sono in carrozzina sono un poverello, io so’ stronzo, tratto male la gente, dammi dello stronzo non del disabile”. Capito, sì?
In tutto ciò che ho visto, ci sono altre due cose che mi hanno colpito ferocemente. Numero uno: le storie. Dietro ogni persona presente nelle case di cura, c’è una storia che tendiamo a dimenticare. Come individui che sono nati poco dopo la Prima Guerra Mondiale e hanno vissuto la Seconda, testimoni, vittime, carnefici di un percorso umano che ha segnato la linea temporale dell’umanità. Che però vengono lasciati in stanze miste, nelle quali tutto ciò che possiedono viene rinchiuso in un comodino opinabile e in metà armadio. Fine. Anche perché può capitare che i parenti ti brucino le vesti una volta che ti hanno lasciato alle mani degli operatori sanitari. Oppure che ti abbandonino senza niente e nessuno, semplicemente perché hai una forma di disabilità mentale che ti rende “inumano”.
Numero due: la contraddizione. Perché, per diversi casi, le case di cura sono ancore di salvezza per famiglie che, altrimenti, non avrebbero soluzioni. Eppure questo non giustifica dettagli abbastanza singolari. Come riportato da numerose inchieste, vi sono situazioni abbastanza opinabili all’interno di queste strutture (aria viziata per molte ore, contatto con la morte molto presente, spazi privati quasi assenti), a cui viene lecito proporre delle alternative. La Comunità di Sant’Egidio, ad esempio, ha creato un servizio di Case Famiglia e Co-Housing: a cinque/sei anziani viene data una casa per contrastare l’isolamento forzato nel quale rischiano di vivere. Si tratta comunque di un argomento abbastanza complesso da affrontare, per quanto concerne il nostro racconto possiamo mettere in pausa e, magari, riprendere il tutto in futuro.
Martedì 25 dicembre: il Pranzo di Natale
Al gruppo composto da Diesel e dal sottoscritto si sono unite anche due ragazze straniere provenienti dal Brasile, le quali – sempre per quella cosetta chiamata privacy non richiesta – le chiameremo Rio e Recife (‘mo non cominciate a dire “Eh, stai a fa come la Casa de Papèl“, perché da ragazzino, su Netlog, avevo l’account Topo De Ostia, gli spagnoli non se so’ inventati nulla).
Durante il tragitto verso la Chiesa (l’arrivo è previsto per le 9:30, bisognava aiutare a sistemare tavoli, siede, cucina, pasti e via dicendo), uno dei luoghi dove si sarebbe tenuto il Natale assieme al Centro Anziani limitrofo e alla sede della Comunità in via Baffigo, ho avuto modo di addentrarmi ancora di più nello spaccato sociale brasiliano, dove vige un divario economico ancora più ampio di quanto ci possiamo immaginare.
Tutto un po’ è partito a causa mia, visto che sono un impiccione di livelli cosmici, e ho cominciato una filippica inimmaginabile sui corsi di trucco di Chiara Ferragni da 650 euro: “Ma il problema non è lei, non è chi va ad acquistare i corsi, ma il sentimento sociale per il quale dobbiamo mostrare ricchezza anche quando non l’abbiamo, come se essere ricchi sia sinonimo di bontà, moda e raffinatezza umana. Dobbiamo fare sempre gli italiani”.
A quel punto Rio mi ha detto una cosa che ha ampliato un po’ la mia veduta generale: “Anche in Brasile succede una cosa simile: la gente si indebita per avere uno smartphone, per poi lamentarsi del costo dello smartphone con quello stesso oggetto”. Il problema non è l’italiano, è proprio l’essere umano.
Nel mondo di Natale
Da qui in poi, sono rimasto solo. Gli altri compari (Diesel, Rio e Recife – sembra che sto mettendo su una rock band) hanno preso i loro compiti, io sono tornato a fare il cameriere per una giornata. Era da tanto che non tornavo a vestire la parannanza per qualcuno, e un po’ di ricordi sono arrivati alla mente. Solo che qui la gente ti porgeva un saluto e ti trattava con rispetto, nei ristoranti (luoghi nostrani e alla moda, senza esclusione) ti guardano alla stregua di una pezza da piedi.
Mi sono offerto come volontario per l’interno della Chiesa, dove erano state predisposte sette tavolate da circa 14/16 posti ciascuno. Ed è qui che subito il Dick-pensiero è tornato a farsi presente. Perché, in mezzo a tante persone svantaggiate, sono accorse anche famiglie benestanti (o comunque con una parvenza di redditto) per mangiare l’intero menù. Che, un po’ giustamente, uno potrebbe dire “Eh ma questi ce l’hanno i soldi, andassero a magnà al Mc Donald’s”. E di fatto, guarda caso, una persona si è lamentata subito con me: “Ma io che sono povera, perché devo mangiare assieme ai ricchi?”.
Ecco, e qui casca l’asino. Perché, come ho anticipato sopra, gli stessi addetti della Comunità mi hanno rivelato una sotto-trama del Pranzo di Natale di cui non mi ero accorto. “Che tu sia povero o ricco, non c’è differenza. Qui dobbiamo riscoprire l’umanità delle persone, lo stare assieme, la gioia di condividere e di saper apprezzare chi ci siede accanto”. Ora, ho un po’ enfatizzato e posto sinonimi qua e là in questa frase, anche perché, mentre cercavo di memorizzare il tutto, avevo quattro porzioni di lasagne in mano. Ma non credo ci sia altro da aggiungere: l’umanità, sempre e solo umanità. Per quanto vi possa sembrare contraddittoria.
Tipi da pranzo
Raccontare nel dettaglio ogni singola storia può risultare molto prolisso, perciò ho deciso di osservare le persone individuando tipologie e tipologie. Per i tipi da Pranzo di Natale, ho individuato quattro categorie. Il primo lo ribattezzeremo “Totem“: è il più simpatico della combriccola, il più aperto di parola e pronto a parlare di questioni socio-politiche come se non ci fosse un domani. Nel mio caso, Totem ha iniziato un discorso sulla ricchezza, ammettendo che a lui i soldi interessano meno, perché “non voglio essere il più ricco del cimitero”.
Ora, lungi da me inneggiare alla povertà sensata, ma a me ha colpito il fatto di ammettere con tranquillità di essere povero. Oh, è una consapevolezza umana migliore di certe ragazze con cui sono uscito, che mi hanno etichettato come “figlio di papà che passa le serate a fare discoteca”, quando per me la discoteca è il laser game vicino al Raccordo Anulare. La frase più singolare che mi è stata rivolta è la risposta alla mia proposta del bis di polpettone: “No, lascia perdere, meglio non essere ingordi“.
Il secondo tipo è “Rancore“. Perché sì, a molti possono girare le balle per la propria condizione, e Rancore non ha fatto altro che sottolineare la differenza importante che esiste tra povero e ricco. Che forse, oltre ai consueti movimenti capitalistici esistenti, la differenza di classe a livello concettuale è data anche da questo: io sono povero, e non sarò mai come il ricco; lui è ricco, e non saprà mai cosa significa essere povero. Di fatto, il Pranzo di Natale serve anche a spaccare questi tabù, a parlare all’umanità di fondo che risiede in tutti noi, senza guardare l’altro con troppa commiserazione, che nessuno di noi è Dio sceso in terra.
Poi c’è “Confessionale“. Una persona che vuole solo essere ascoltata. Nel mio caso, tutto è partito dal mio nome. “Sai, io ho tre angeli in cielo, ora sono sola con il mio cane, che ho chiamato come te, Angelo“. Che lì per lì un cinico profondo come Dick potrebbe pensare “Anvedi che accollo”. Ma, in realtà, quanto consideriamo veramente importante l’ascoltare? Quant’è nevralgico, soprattutto, saper dosare l’ascolto, saperlo donare, saper esserci con le nostre orecchie? Ero lì a presentarmi ai commensali e, un attimo dopo, una persona mi ha raccontato la sua vita. Sì, n’accollo, ma può darsi che io, per quell’accollo, in quel momento, ero una persona degna di ascoltare la vita di una persona. Che poi mi abbia fatto tremila foto è un altro discorso.
Veniamo all’ultimo: “Mestizia“. Si tratta di un individuo abbastanza defilato, non incline alle chiacchiere e molto rispettoso del cibo. “Grazie” e “Molto gentile” saranno le uniche parole che sentire dalla sua bocca. Il mio istinto mi ha semplicemente detto di sorridere e di creare un ambiente il più possibile cordiale e festaiolo, in modo da non far sentire esclusa questa persona. Purtroppo, però, non so molto altro: in un attimo questa persona sparisce, come se stare lì fosse una colpa gigantesca a cui non è possibile porre rimedio con le parole.
Tipi da volontario
Non ho solo scannerizzato gli ospiti, ma ho posato lo sguardo anche su chi ha fatto del Natale un evento solidale. Di fatto, anche qui, ho individuato quattro tipi di volontario del Pranzo di Natale. Il primo lo chiameremo “Alessandro Borghese“: quello che sta in cucina e ha una pazienza disumana nel cercare di amministrare tutte le pietanze presenti, in modo tale da non buttare via nulla e che nessuno dei presenti resti senza il cibo promesso. Personalmente, avrei scapocciato dopo il primo “In sala chiedono fette più grosse”: passerei le ore, righello in mano, a calcolare che l’ipotenusa di ogni singolo pasto sia identica.
Poi ecco “Striscia“, cioè la persona che fa delle porzioni minuscole. Non penso sia per cattiva volontà, voglio credere che sia mossa dalla paura di far ingozzare troppo i presenti. Però, Striscia, du’ pezzettini in più puoi sempre farli. C’è da dire che tutto viene bilanciato da “Giara“, che fa porzioni gigantesche, che neanche nei cenoni calabresi ho visto. Dopo un primo tiro e molla, i due trovano il bilanciamento perfetto per le porzioni e tutto fila liscio.
Infine c’è “Megafono“. Quello che passa in mezzo ai tavoli, provando a intonare applausi e cori, nel momento stesso in cui tiene in mano vassoi, piatti pieni o regali. Cerca sempre la complicità dei presenti al tavolo, urla in romanaccio aperto e si fa coinvolgere dall’atmosfera presente. Ok, non è proprio un tipo, ero io. Mi sono fatto prendere molto dalla frenesia del momento, mi sono calato nei panni dell’oste romano ed è finita un po’ in vacca. Per fortuna, hanno tutti riso, quindi posso dire che è andata bene.
The End
Non credo esista un modo adatto per chiosare su questo mini-diario. Il mio unico augurio è che tutto ciò che ho scritto possa esservi di spunto per prender parte a una battaglia sociale, qualsiasi essa sia. Senza essere mossi da sentimenti quali pietismo e commiserazione, ma semplicemente perché sentite vostra quella determinata motivazione. O almeno, la penso così. Poi fate come vi pare, nessuno vi costringe.
Ringrazio la Comunità di Sant’Egidio di Ostia per avermi traghettato in questa esperienza e per aver riposto fiducia nel mio operato. Ringrazio Diesel, Rio e Recife per aver partecipato insieme a me a quest’esperienza. Ringrazio tutti i volontari presenti per avermi aiutato nelle questioni pratiche che un novellino come me non avrebbe mai capito. Ringrazio Sergio, per avermi tempestato con un’unica domanda: “Dov’è il librettino Dove?” (che uno può pensare “Oddio, ‘mo che ce fa questo col calendario del Sant’Egidio”, e invece è un libro destinato ai senzatetto su strutture pubbliche e gratuite dove poter dormire, mangiare e lavarsi). Ringrazio un po’ tutti quanti, perché Natale non è per forza una tradizione, ma un’esperienza.
Ps: Questo diario è stato scritto il 26 dicembre 2018, ma negli anni successivi sono tornato a partecipare all’iniziativa del Pranzo di Natale, anche durante la pandemia di Covid. Per chi volesse, sul mio account Instagram racconto ogni anno le sensazioni provate.