Questo scritto è stato precedentemente pubblicato il 26 aprile 2022 in questo blog
È il constante leitmotiv che imperversa da anni nella società italiana, e che investe sempre la stessa categoria, quasi a voler platealmente ricalcare lo stereotipo per difendere un certo status quo: i giovani non vogliono lavorare o, peggio, i giovani non hanno voglia di lavorare, ma preferiscono vivere con i sussidi dello Stato o sulle spalle dei propri genitori.
Si tratta di un’argomentazione trita, ri-trita e soprattutto fallace, ma che torna sempre in auge per svariati motivi. L’ultimo, in termini di cronaca, è un’intervista del 13 aprile 2022 che Alessandro Borghese, noto conduttore televisivo e cuoco italiano, ha concesso a Il Corriere della Sera, all’interno di una più ampia inchiesta sulla ristorazione.
Borghese si è soffermato approfonditamente sul binomio giovani-lavoro nell’ambito del proprio mestiere, attraverso dichiarazioni che hanno sollevato numerose polemiche. Al centro del dibattito, ci sono le seguenti opinioni:
Diciamo piuttosto che i ragazzi, oggi, hanno capito che stare in cucina o in sala non è vivere dentro a un set. Vuoi diventare Alessandro Borghese? Devi lavorare sodo. A me nessuno ha mai regalato nulla. Mi sono spaccato la schiena, io, per questo lavoro che è fatto di sacrifici e abnegazione. Ho saltato le feste di compleanno delle mie figlie, gli anniversari con mia moglie. Ho nuotato con una bracciata sempre avanti agli altri perché amo il mio mestiere. La pandemia ha lasciato il segno, vero, ma ora abbiamo svoltato: i ristoranti sono tornati a lavorare, la gente c’è
[I ragazzi, ndr] Preferiscono tenersi stretto il fine settimana per divertirsi con gli amici. E quando decidono di provarci, lo fanno con l’arroganza di chi si sente arrivato. E la pretesa di ricevere compensi importanti. Da subito. Sarò impopolare, ma non ho alcun problema nel dire che lavorare per imparare non significa essere per forza pagati. Io prestavo servizio sulle navi da crociera con “soli” vitto e alloggio riconosciuti. Stop. Mi andava bene così: l’opportunità valeva lo stipendio. Oggi ci sono ragazzetti senza arte ne parte che di investire su se stessi non hanno la benché minima intenzione. Manca la devozione al lavoro, manca l’attaccamento alla maglia. Alle volte ho come l’impressione che le nuove generazioni cerchino un impiego sperando di non trovarlo perché, quando poi li chiami per dare loro una possibilità, non si fanno trovare. Mi danno, è frustrante
Vale la pena ricordare che lo chef Borghese è intervenuto sul tema più di una volta. Di fatto, già nell’ottobre 2021, e sempre su Il Corriere della Sera, il presentatore tv rilanciò una sua opinione riguardante i giovani che cercano tutele lavorative, usando dichiarazioni diverse rispetto a quelle lette qualche giorno fa:
Non credo che la figura del cuoco sia in crisi, ma ci si è accorti che non è un lavoro tutto televisione e luccichii. Si è capito che è faticoso e logorante. E mentre la mia generazione è cresciuta lavorando a ritmi pazzeschi, oggi è cambiata la mentalità: chi si affaccia a questa professione vuole garanzie. Stipendi più alti, turni regolamentati, percorsi di crescita. In cambio del sacrificio di tempo, i giovani chiedono certezze e gratificazioni. In effetti prima questo mestiere era sottopagato: oggi i ragazzi non lo accettano
Sicuramente bisogna lavorare in modo diverso. Sta già succedendo: io ero aperto sette giorni su sette pre-pandemia, adesso cinque. Vorrei tornare a sei, ma comunque terrò chiuso un giorno. Il riposo e i turni sono fondamentali e noi chef, che siamo brand ambassador della cucina italiana, dobbiamo ascoltare le richieste dei ragazzi e delle ragazze che rendono possibile il nostro lavoro
Bisogna essere datori di lavoro seri, dare prospettive. Se vogliamo che questo settore sia centrale per l’Italia è l’unica strada. Senza personale qualificato non andiamo da nessuna parte, se si trovano male i clienti non tornano
Sono bastati 5 mesi al famoso chef italiano per cambiare opinione sull’argomento: parafrasando, i giovani non solo non vogliono lavorare, ma hanno anche la ‘spocchia’ di chiedere un salario dignitoso, invece di sudare la maglia. Un concetto tanto caro alla cultura attuale, la quale sembra intenzionata a disgregare il tessuto sociale futuro al fine di mantenere l’ascensore sociale immobile.
Per spiegare meglio la situazione – e delineare il quadro della situazione a chiunque pensi che i giovani non hanno voglia di lavorare -, ci faremo aiutare da statistiche e dati che fotografano un’Italia poco propensa a difendere il proprio futuro.
I giovani non vogliono lavorare? I dati ci dicono altro
Oltre le opinioni, analizziamo i fatti, partendo dal contesto generale. In Italia la relazione tra giovani e lavoro è sempre più in crisi, ed è un fenomeno che viene analizzato da ben prima della pandemia da Coronavirus – alla quale non dobbiamo dare la responsabilità della situazione, così come alla guerra in Ucraina.
Cominciamo menzionando qualche dato. In base alle statistiche del febbraio 2022 rilasciate da Istat, per fare un esempio recente, il comparto lavorativo italiano vive in un costante clima di incertezza: se da una parte c’è stato un aumento degli occupati nel mese di riferimento, è anche vero che dipende principalmente dai rapporti a termine (+133mila) e dagli autonomi (+56mila), due categorie che, universalmente parlando, non garantiscono una base solida su cui costruire un futuro per nessuno (carriera, casa e famiglia). E il lavoro permanente? È crollato: -109mila per i tempo indeterminato.
E se anche analizzassimo il fenomeno nell’arco dei 12 mesi (febbraio 2021 – febbraio 2022), il contesto non cambierebbe più di tanto: c’è un irrisorio aumento dei dipendenti permanenti (+0,8%), una crescita degli autonomi (+3,3%) e un’impennata dei lavoratori a termine (+18,9%).
A certificare una bassa tutela contrattuale per chi lavora in Italia ci sono i dati dell’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche (Inapp, ex Isfol), inseriti in “Una ripresa… a tempo parziale” del 17 novembre 2021: dal report emerge chiaramente che la ripresa dell’occupazione era data dai contratti part time o dal lavoro “involontario”, cioè “non richiesto cioè dal lavoratore o dalla lavoratrice per esigenze previste dalla legge, ma proposto come condizione contrattuale di accesso al lavoro dalle imprese”. Più nel dettaglio, le statistiche ci dicono che:
- dei 3.322.634 contratti attivati (2.006.617 uomini; 1.316.017 a donne), oltre un milione e 187 (il 35,7%) sono part time;
- quasi la metà (il 49,6%) delle nuove assunzioni di donne è a tempo parziale, contro il 26,6% degli uomini;
- “L’essere under 30 e vivere al Sud continua a rappresentare una condizione di svantaggio ulteriore”, si legge nel report.
Se invece volessimo fotografare più nel dettaglio lo status dei lavoratori young, dovremmo considerare il tasso di disoccupazione giovanile. In base ai dati Eurostat pubblicati nel settembre 2021 – con riferimento a luglio dello stesso anno -, la disoccupazione giovanile per gli under 25 è diminuita rispetto all’anno precedente (27,7% contro il 31.9% del luglio 2020), ma resta una delle peggiori in Europa (siamo battuti solo Spagna, passata dal 41.3% al 35.1%, e Grecia, dal 36.1% a 37.6%).
In prima istanza, dunque, possiamo affermare che il contesto italiano non favorisce la creazione di un futuro stabile e solido per nessuna categoria lavorativa, figurarsi per i giovani che, in certi casi, abitano in contesti familiari socio-economici all’interno dei quali sono comunque chiamati a dare una mano, rallentando ancora di più le prospettive future di autonomia.
Quanto guadagnano i giovani in Italia?
Se questi dati non sono sufficienti, approfondiamo il salario dei giovani lavoratori in Italia. Secondo le statistiche dell’Osservatorio Inps sul 2020 e degli open data Inps, elaborati da Il Fatto Quotidiano, la situazione è particolarmente complessa.
Un lavoratore dipendente privato tra i 25 e i 29 anni nel 2020 ha guadagnato in media 14.400 euro lordi, che sarebbero 1.200 euro lordi al mese (nel 2019 erano 15.600). Uno stipendio che sale (ma di poco) a 17.900 annuali tra i 30 e i 34 anni (nel 2019 erano 19.300).
Peggio invece va ai ventenni, coi loro 9.300 euro lordi all’anno, contro i 27.900 dei 55enni. A farne le spese sono soprattutto le donne, che guadagnano in media 7mila euro l’anno in meno e sono più soggette al part time involontario. Stime che, da una parte, certificano la bassa qualità di vita entro cui i giovani sono inseriti e, dall’altra, salari inadeguati a garantire una pensione adeguata per il futuro.
Quanto costa la vita in Italia?
All’interno di questa analisi dei giovani lavoratori, dobbiamo allargare il campo anche al costo della vita in Italia, che negli ultimi anni è sensibilmente aumentato. Questo approfondimento è fondamentale, in quanto lo stipendio è necessario al proprio sostentamento: affitto, spesa, bollette e svago, per fare una sintesi.
Secondo un’indagine dell’associazione dei consumatori Consumerismo No Profit e del Centro Ricerca e Studi di “Alma Laboris Business School”, il costo della vita in Italia è aumentato praticamente ovunque, sia nei beni che ne servizi. La ricerca ha preso in esame i prezzi fissati nel 2001 (prima dell’avvento dell’euro) e li ha raffrontati con quelli in vigore nel 2022, facendo emergere una costante crescita. Di seguito, un breve elenco:
- cono gelato: 0,77 euro nel 2001; 2,50 euro nel 2022 (+224,7%);
- penna a sfera: 0,26 euro nel 2001; 0,80 euro nel 2022 (+207,7%);
- tramezzino da bar: 0,77 euro nel 2001; 2,30 nel 2022 (+198,7%);
- biglietto autobus a Milano: 0,77 euro nel 2001; 2,00 euro nel 2022 (+159,7%);
- biscotti frollini da 1 kg: 1,50 euro nel 2001; 3,89 euro nel 2022 (+159,3%);
- bottiglia di passata di pomodoro: 0,62 euro nel 2001; 1,54 euro nel 2022 (+148,4%);
- cacao in polvere: 0,76 euro nel 2001; 1,85 euro nel 2022 (+143,4%);
- sale da 1 kg: 0,47 euro nel 2001; 1,10 euro nel 2022 (+134,0%);
- bollettino cc postale: 0,77 euro nel 2001; 1,80 euro nel 2022 (+133,8%);
- supplì: 0,67 euro nel 2001; 1,50 euro nel 2022 (+123,9%);
- olio extravergine di 1 litro: 4,06 euro nel 2001; 8,70 euro nel 2022 (+114,3%);
- confezione da 6 uova: 1,03 euro nel 2001; 2,09 euro nel 2022 (+102,9%);
- scatoletta gatto grande 2 pezzi: 1,14 euro nel 2001; 2,30 euro nel 2022 (+101,8%);
- quotidiano: 0,77 euro nel 2001; 1,50 euro nel 2022 (+94,8%);
- pizza margherita: 3,36 euro nel 2001; 6,50 euro nel 2022 (+93,5%);
- cappuccino e brioche: 1,19 euro nel 2001; 2,30 euro nel 2022 (+93,3%);
- assorbenti con le ali: 2,89 euro nel 2001; 5,50 euro nel 2022 (+90,3%);
- cinema biglietto ridotto: 4,13 euro nel 2001; 7,70 euro nel 2022 (+86,4%);
- detersivo liquido lavatrice di 3 litri: 5,05 euro nel 2001; 9,50 euro nel 2022 (+88,1%);
- pane al kg: 1,80 euro nel 2001; 3,25 euro nel 2022 (+80,6%);
- cereali da colazione: 1,83 euro nel 2001; 3,30 euro nel 2022 (+80,3%);
- cioccolata da spalmare: 1,46 euro nel 2001; 2,60 euro nel 2022 (+78,1%);
- pomodori pachino: 2,32 euro nel 2001; 4,09 euro nel 2022 (+76,3%);
- dentista (otturazione): 72,30 euro nel 2001; 120,00 euro nel 2022 (+66,0%);
- auto utilitaria: 10300,00 euro nel 2001; 16150,00 euro nel 2022 (+56,8%);
- caffè al bar: 0,67 euro nel 2001; 1,04 euro nel 2022 (+55,2%);
- dentifricio: 2,01 euro nel 2001; 3,10 euro nel 2022 (+54,2%);
- cinema biglietto intero: 6,71 euro nel 2001; 10,00 euro nel 2022 (+49,0%);
- deodorante stick: 2,58 euro nel 2001; 3,79 euro nel 2022 (+46,9%);
- spazzolini da denti: 1,81 euro nel 2001; 2,70 euro nel 2022 (+49,2);
- bagnoschiuma: 1,65 euro nel 2001; 2,37 euro nel 2022 (+43,6%);
- prosciutto crudo al kg: 20,65 euro nel 2001; 28,10 euro nel 2022 (+36,1%);
- pannolini confezione piccola: 11,83 euro nel 2001; 15,99 euro nel 2022 (+35,2%);
- shampoo: 2,55 euro nel 2001; 2,20 euro nel 2022 (+29,4%).
La solfa non cambia nemmeno per gli affitti. All’interno di un’indagine, Idealista ha certificato che, da marzo 2021 a marzo 2022, i prezzi degli affitti sono aumentati pressoché in ogni regione, fissando la media italiana a 11,2 euro/m2 (+3,5%). Di seguito, lo studio analizzato regione per regione:
- Abruzzo: 6,9 €/m2 (+10,2%);
- Basilicata: 6,5 €/m2 (+0,6%);
- Calabria: 6,1 €/m2 (+ 13,6%);
- Campania: 8,5 €/m2 (+4,6%);
- Emilia-Romagna: 11,6 €/m2 (+6,7%);
- Friuli-Venezia Giulia: 9,1 €/m2 (+5,0%);
- Lazio: 12,3 €/m2 (-0,8%);
- Liguria: 9,5 €/m2 (+8,5%);
- Lombardia: 15,4 €/m2 (+6,6%);
- Marche: 8,3 €/m2 (+10,2%);
- Molise: 5,5 €/m2 (+4,7%);
- Piemonte: 7,3 €/m2 (-3,1%);
- Puglia: 8,1 €/m2 (+8,9%);
- Sardegna: 10,0 €/m2 (+10,7%);
- Sicilia: 6,9 €/m2 (+6,0%);
- Toscana: 13,8 €/m2 (+12,8%);
- Trentino-Alto Adige: 13,3 €/m2 (+13,4%);
- Umbria: 6,5 €/m2 (+3,8%);
- Valle d’Aosta: 14,4 €/m2 (+29,1%);
- Veneto: 9,5 €/m2 (+3,0%).
Un lavoro richiede uno stipendio dignitoso, non solo per quanto concerne i diritti umani, ma anche perché permette a qualsiasi persona, anche ai giovani, di poter vivere all’interno di una società. L’attenzione è centrale per i profili junior, poiché nel passaggio dal mondo della scuola/università a quello del lavoro dovrebbero avere tutti gli incentivi atti al perseguimento dell’obiettivo, ma ciò non avviene.
Come abbiamo visto, il prezzo di beni e servizi è aumentato negli ultimi anni, mentre gli stipendi sono lentamente diminuiti, soprattutto per le fasce dei lavoratori young. Da ciò emerge chiaramente che l’autonomia lavorativa, economica e familiare per un giovane è una chimera, un traguardo che difficilmente può essere raggiunto da tutti in queste condizioni: senza un adeguato stipendio, è complicato pagare contemporaneamente un affitto, un mezzo di trasporto proprio e la spesa del supermercato, per fare un esempio.
E ciò crea conseguenze anche in altri ambiti, come il tasso di natalità, che continua a decrescere. Uno dei motivi principali per i quali le nuove generazioni non fanno figli è, banalmente, l’insicurezza sociale per il futuro, basata su lavori precari, pagati male e con basse tutele.
E non sono considerazioni pioneristiche, visto che già nel marzo 2017 uno studio della Fondazione Visentini aveva sottolineato che nel 2020 un giovane impiegherà 18 anni per costruirsi una vita autonoma (all’età di 38 anni), mentre nel 2030 addirittura 28 anni (alla soglia dei 50). Già in questo caso, quindi, il concetto secondo cui i giovani non hanno voglia di lavorare crolla: in realtà, non hanno voglia di essere sfruttati per un futuro incerto – il che cambia completamente il discorso.
E se un giovane lavoratore proviene da una famiglia ricca?
Una critica generale nei confronti di dati e statistiche, applicabile a qualsiasi contesto, è nella misurazione: stiamo sempre parlando di stime, e quindi sicuramente esistono giovani che hanno più vantaggi sociali rispetto ad altri. E uno dei motivi principali riguarda il punto di partenza, cioè essere nati in famiglie che possono permettersi di sostenere economicamente i propri figli, aiutandoli passo passo nel loro percorso di crescita.
Attenzione però: ciò non significa che chi nasce in una famiglia ricca riuscirà sempre e comunque a costruirsi una propria autonomia familiare, lavorativa ed economica. Alla fine della fiera, le scelte del singolo hanno un peso enorme sulla propria vita. Ma è indubbio che una base solida da cui partire concede maggiori possibilità di scelta e di esperienze, mentre chi parte da un contesto critico dovrà fare di necessità virtù.
A certificare la difficoltà di cambiare status sociale è il Global Social Mobility Index 2020, uno studio che ha misurato 82 economie mondiali in 5 dimensioni determinanti per la mobilità sociale (salute, scuola, tecnologia, lavoro e istituzioni). Tra gli Stati che garantiscono una migliore mobilità sociale, troviamo Danimarca, Norvegia, Finlandia, Svezia e Islanda. La Germania è 11esima, seguita dalla Francia. Regno Unito solamente al 21esimo posto, USA al 27esimo e l’Italia al 34esimo.
Segno che nel nostro Paese manca l’equità sociale, cioè una garanzia di accesso agli stessi servizi e beni che tenga conto dello status socio-economico di provenienza: nello Stivale, ciò è evidenziato dalla mancata diversità sociale nelle scuole e nelle scarse opportunità di lavoro per i giovani – che hanno causato la nascita dei Neet. Insomma, l’analisi afferma chiaramente che in Italia lo status di partenza ha un peso rilevante sul proprio futuro: le classi sociali sono così ingessate che le chance di vita di una persona sono – purtroppo – legate al proprio reddito di partenza.
I giovani non vogliono lavorare? No, vivono in una società tossica
“Entrambi i miei figli sono stati cresciuti con l’insegnamento di cavarsela da soli, senza aiuti finanziari da parte mia. Alessandro ha fatto una grande gavetta, entrando e uscendo da cucine che spesso chiudevano e ritrovandosi in mezzo a una strada. È un grande lavoratore”. Queste sono le parole di Barbara Bouchet, madre di Alessandra Borghese, intervenuta a Il Corriere della Sera in merito alla querelle che ha visto protagonista il figlio.
La concezione secondo cui ottenere un lavoro è legato a profondi sacrifici personali è alla base della società attuale: se ti spezzi la schiena e ti ritrovi in mezzo a una strada, allora sei una persona che merita uno stipendio dignitoso; se chiedi diritti, no. Viviamo in una società tossica che non permette a tutti le stesse possibilità, e non garantisce alle fasce economicamente più deboli il raggiungimento di una serenità economica, lavorativa e familiare, e i dati ci dimostrano che vivere al suo interno sta diventando sempre più complesso.
La soluzione si chiama equità sociale: vuol dire assegnare le stesse possibilità a tutti tenendo in considerazione lo status economico di partenza, e garantendo sempre uno stipendio dignitoso ai lavoratori. L’accesso all’istruzione e al lavoro, così come a una casa, non dovrebbero essere esclusivi o basati sulla ricchezza, ma al momento così accade, e gli effetti sono già sotto gli occhi di tutti: la società invecchia, l’età pensionabile si allontana, il sistema pensionistico si sfalda, le natalità diminuiscono. Senza difesa delle nuove generazione, non ci sarà futuro per nessuno.